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ALBERT SCHWEITZER

Un “vero” testimone del nostro tempo

 

L’infaticabile opera del medico e filantropo alsaziano

per la cura dei più “diseredati” dell’Africa equatoriale

 

 

 

Negli anni ’50 il nome di Albert Schweitzer, noto sino allora in cerchie intellettuali ristrette e nelle minoranze protestanti, godette anche in Italia di una vasta fama. Schweitzer fu tra i maggiori difensori internazionali della causa della pace e dei movimenti antinucleari. Aveva fatto l’esperienza diretta della prima guerra mondiale e si era sentito ossessivamente coinvolto dalla seconda e dalle sue conseguenze, ma aveva anche dimostrato nei fatti come fosse possibile servire la causa della pace occupandosi dei vivi e dei poveri.

Si tira quindi un sospiro di sollievo a poter parlare, sentir parlare, anche se solo per poco, della straordinaria vita e pensiero di un “vero” protagonista della storia e di un grande testimone del nostro tempo quale è Albert Schweitzer, la cui esistenza lo ha visto dedito ad impegni e scelte di elevato valore umano, sociale e culturale, quali la teologia, la musica, la medicina; ma anche alla riflessione sull’argomento a lui più caro dopo la dedizione all’umanità: la filosofia della civiltà. Forse tardi, ma ancora in tempo Schweitzer comprese che l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza, la poetica “escatologia” alla quale portava il mistero della Fede, ben al di là delle questioni filosofiche e teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria vita, nel corso della quale ne trasse l’amara constatazione di vivere “in un periodo di decadenza spirituale”, dove “la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento” ma anche la forza di combattere per far recuperare “dignità all’essere umano”.

Nonostante questo esempio di estrema considerazione e rispetto dell’uomo e di ogni altra forma di vita (come vedremo), sembra impossibile che oggi, nel XXI secolo, si incontrino eccessive (per non dire assurde) difficoltà ogni qualvolta si intende intraprendere una “buona azione” nei confronti del prossimo. E questo, anche se con più mezzi di trasporto, di comunicazione, di risorse di ogni genere, etc.; mentre ai tempi di Schweitzer, il sentimento della solidarietà era l’unico mezzo che consentiva di rispondere concretamente agli appelli del medico alsaziano… Ciò, in presenza di due conflitti mondiali, di problemi etico-filosofici, di legislazioni non progressiste…

 

 



L’infanzia, l’adolescenza, gli studi

 

Albert Schweitzer nasce il 14 gennaio 1875 a Kaisersberg nell’Alta Alsazia, dal padre Ludwig (vicario che curava la piccola comunità evangelica del luogo) e dalla madre Adele Schillinger, figlia del pastore di Muhlbach nel Munstertal nell’Alta Alsazia. Secondogenito (aveva un fratello e tre sorelle), Albert trascorre una fanciullezza serena; a cinque anni suo padre gli insegna a suonare il clavicembalo; a sette anni già stupiva la maestra di scuola eseguendo sull’armonium melodie di corali da lui stesso armonizzate; a otto anni comincia a suonare l’organo (raggiungendo una buona preparazione a soli quindici anni). Fino al 1881 frequenta la scuola rurale di Gunsbach; l’anno successivo frequenta il ginnasio di Mulhouse (in Alsazia), con particolare interesse per la storia e le scienze naturali, ottenendo ottimi risultati, diplomandosi il 18 giugno 1893, e nello stesso anno si iscrive alla Facoltà di Filosofia all’università di Strasburgo, frequentando contemporaneamente Teologia. Nell’aprile 1894 svolge il servizio militare. Durante i successivi anni di università si occupa in modo autonomo del problema dei Vangeli e della vita di Gesù.

 

Fa sensibili passi avanti nei suoi studi musicali quando Ernst Munch (fratello del suo maestro di Mulhouse, e organista di St. Wilhelm a Strasburgo), gli affida l’accompagnamento d’organo delle cantate e delle passioni nei concerti bachiani del coro, da lui fondati e diretti, acquistando così familiarità con le creazioni di Bach, e Richard Wagner. Nel 1898 supera il primo esame di Teologia e, nel contempo, si prepara per la tesi di laurea in Filosofia. A Parigi si perfeziona in organo con Widor e sotto la guida di Marie Jaell; inoltre è proprio grazie a Widor e a Charles Schweitzer (secondo fratello del padre di Albert, e noto filologo) che il giovane Albert ha modo di entrare in contatto a Parigi con importanti personalità.

 

 

Dopo una breve pausa a Berlino, nel luglio 1899 torna a Strasburgo e si laurea in Filosofia (a 24 anni), e di li a poco prepara la tesi di teologia, laureandosi nel 1900 a 25 anni. La sua tesi verterà sull’opera di Immanuel Kant ed il suo modo  di intendere la religione; un pensiero per molti, ancora oggi, scomodamente illuminista, ma Albert Schweitzer saprà uscire dalla consuetudine e andrà, per il resto della sua intensa vita, diritto all’essenza delle cose a discapito del pensiero comune. Nel dicembre del 1899 assume l’incarico di insegnante e predicatore alla comunità di St. Nicolai di Strasburgo; nel 1902 inizia un corso sulle letture pastorali, occupandosi nel contempo della storia delle ricerche sulla vita di Gesù, e nel 1903 assume la direzione del seminario di St. Thomas, con uno stipendio di 2000 marchi. Mentre la prima pubblicazione della storia delle ricerche della vita di Gesù uscirà nel 1906.



La decisione di diventare medico nella foresta

 

Anche se la storia dell’umanità è ricca di uomini per i quali il desiderio di fare cose straordinarie fu la molla delle loro azioni, sonoRitorno inizio documento pochi gli uomini che meglio di Schweitzer hanno saputo ciò che significa essere a contatto dell’umanità sofferente e indigente. Ma perché Schweitzer si è deciso a diventare medico nella foresta vergine? La Medicina per Albert Schweitzer non fu una vocazione della gioventù, ma piuttosto degli anni maturi; fu una scelta compiuta dopo essersi lungamente dedicato allo studio della Musica, della Filosofia, della Teologia, ed aver ottenuto il successo in ognuno di quei campi. La spinta interiore lo porta ad un filantropico trasporto verso gli altri, ad un amore rivolto ai sofferenti nel senso di condivisione con chi, in qualunque parte del mondo, sia in condizione di indigenza e povertà.

 

Il filosofo alsaziano spiegava: “Avevo letto della miseria corporale degli indigeni nella foresta vergine, ne avevo anche sentito parlare dai missionari. Quanto più ci riflettevo tanto più mi era inspiegabile il fatto che noi europei ci occupassimo così poco del grande compito umanitario che laggiù ci aspettava”. Un mattino dell’autunno del 1904, sulla sua scrivania al seminario di St. Thomas trova un fascicolo della Società missionaria di Parigi. La sua attenzione si posa su un articolo intitolato “I bisogni della Missione del Congo”, del missionario alsaziano Alfred Boegner (direttore della Società missionaria), il quale deprecava che alla missione mancassero persone disposte a svolgere opera umanitaria in Gabon, la regione settentrionale della colonia del Congo.

 

Era conscio che, mentre molte persone intorno a lui lottavano col dolore e con la preoccupazione, lui poteva condurre una vita serena ed agiata… Anche quando era all’università, rifletteva sulla sua fortuna di poter studiare e svolgere un’attività scientifica ed artistica, e che a molti altri non era consentito per ragioni materiali o di salute. Per un certo periodo si dedica ai vagabondi e agli ex carcerati, come già fece da studente: appartenendo ad un’associazione studentesca svolgeva attività assistenziale.

 

Va precisato che Schweitzer propendeva per un’attività rigorosamente personale e autonoma, e benché fosse disposto a mettersi a disposizione di un’organizzazione, non abbandonò mai la speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo libero. Considerò sempre la concretizzazione di questo forte desiderio come una grande grazia che, come si vedrà, si realizzò totalmente…

 

Qualche mese dopo, al compimento del trentesimo compleanno Albert Schweitzer decide di realizzare il suo progetto: il 13 ottobre 1905  il giovane Albert comunica ai genitori ed agli amici più intimi che si sarebbe iscritto a Medicina, con il proposito di diventare medico e di andare nell’Africa equatoriale per mettersi al servizio puramente umano. “Con la conoscenza della medicinaRitorno inizio documento sosteneva – potevo realizzare il mio progetto nel migliore dei modi, qualunque fosse il luogo verso cui il sentiero della professione mi avrebbe condotto”.

 

Nonostante questa determinazione non mancarono tentativi di dissuasione da parte di parenti ed amici, ai quali replicava senza esitare, perché sentiva di rispondere all’obbedienza e al comando d’amore di Gesù. Si rendeva conto che affrontare una via ignota era a dir poco rischioso, che tuttavia pensava di potercela fare: riteneva di possedere salute, nervi saldi, energia, spirito pratico, tenacia, accortezza e quant’altro.

Ciò che sorprendeva gli amici era il fatto che egli voleva andare in Africa non come missionario, bensì come medico. Aveva scelto l’Africa perché là c’era maggiormente bisogno di medici e perché voleva riparare, nel continente nero, almeno in parte, al male che i bianchi vi avevano compiuto. L’Africa, quindi, in realtà non ha significato per Schweitzer una fuga dalla vita o lo scopo della sua vita, ma piuttosto un simbolo della sua vita. Andare in quel Continente per lui non c’era nulla di eroico: si trattava semplicemente di adempiere un dovere. L’Africa è stata il simbolo della sua esistenza; il significato ne è il rispetto per la vita.

 

In merito a questa scelta sosteneva: “Solo chi sa trovare un valore in ogni attività consacrandosi ad essa con piena coscienza del dovere, ha l’intimo diritto di prefiggersi un’opera fuori del normale invece di quella che gli tocca naturalmente dalla sorte. Solo chi concepisce il suo proposito come qualcosa di ovvio, non di straordinario, e non conosce l’atteggiamento eroico, ma esclusivamente il dovere assunto con pacato entusiasmo, ha la capacità di essere un avventuriero spirituale. Non ci sono eroi dell’azione, ma soltanto eroi della rinuncia e della sofferenza. Pochi di essi sono conosciuti, non dalla folla, ma da una piccola cerchia di persone… Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti, infatti, dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo… Chi dà la propria vita per gli altri la conserva per l’eternità. Chi si propone di agire per il bene, non deve aspettarsi che la gente per questo gli tolga gli ostacoli dal cammino, ma rassegnarsi che, quasi inevitabilmente, gliene metta qualcun altro in mezzo”.

 

Queste sue affermazioni richiamano il concetto di etica, ossia la scienza della condotta morale di ogni uomo. L’etica ha in sé l’idea che è necessario diventare attivi per il bene degli altri ed è uomo “etico” colui che si dedica agli altri. “L’uomo è veramente etico – secondo la sua concezione – solo quando ubbidisce al dovere di aiutare ogni essere vivente che gli sta attorno e si guarda bene dal recar danno a qualche cosa di vivo. Non si domanda quanto interesse merita questa o quella vita e nemmeno se e quanta sensibilità essa possegga. La vita in quanto tale gli è santa. Etica è responsabilità senza limiti verso tutto ciò che vive ”. 
Un chiaro richiamo al pensiero di Goethe che affermava: “Sia nobile l’uomo, pronto ad aiutare e buono”.
Ritorno inizio documento

 

La preparazione medica avrebbe favorito il perseguimento di questo scopo nella maniera migliore e più completa. Una scelta decisamente opportuna perché dove voleva andare, secondo i rapporti dei missionari, la presenza di un medico era la più urgente delle necessità. Prima di iscriversi alla Facoltà di Medicina ebbe tutti contro: accusato di presunzione, originalità. Lui rispondeva: “Voglio diventare medico per poter lavorare senza parlare…; mi pare la più urgente necessità, in Africa ”. Soltanto a suo padre confidò: Ho riflettuto a lungo su ogni aspetto della cosa. Ho salute, nervi saldi, energia, spirito pratico, tenacia, accortezza, non ho molti bisogni e… se farò fiasco, pazienza, mi rassegnerò ad aver sbagliato ”.

 

A questo proposito va sottolineato che sin da giovane talvolta nasceva in Albert, anche se con garbo e discrezione, l’amore per la polemica. Come quella volta che un’amica di sua madre gli disse: “Eh, caro Albert, adesso sei tutto entusiasmo, hai la testa piena di ideali, ma purtroppo la vita è diversa; ti accorgerai ben presto che la maggior parte di ciò che in questo momento ti esalta altro non è che illusione”. Albert, sbottando, rispose: ”Ecco il vostro errore, signori adulti! Vi piace preparare i giovani alla vita, dicendo loro che debbono rinunciare ai loro ideali. Nossignori. Vostro preciso compito dev’essere quello di aiutare la gioventù a conservare ben saldi i suoi ideali e i pensieri che la entusiasmano, perché costituiscono una ricchezza immensa. Non dite mai: “Ci penserà la realtà a spegnere i tuoi ideali ”. Ditegli invece: “ Rafforza al massimo i tuoi ideali perché la vita non riesca a sradicarli ”. Gli ideali, i pensieri, le idee sono come gocce d’acqua. Apparentemente senza forza. In una goccia d’acqua non si scorge potenza, ma se essa penetra in un crepaccio e diventa ghiaccio, fa saltare la roccia; se si trasforma in vapore mette in moto una macchina. Gli ideali, i pensieri stanno dentro di noi, apparentemente inerti e inutili. Ma diverranno potenti se ci sforzeremo di diventare più semplici, più sinceri, più puri, più mansueti, più pietosi, più amorevoli. Solo con questo lavorio, il molle ferro dell’idealismo giovanile diventerà acciaio ”. “Hai ragione figliolo - concluse il padre, vicario Ludwig -. Dove vi è una forza, vi è anche l’effetto della forza. Nessun raggio di sole va perduto. Ma non dimenticare che la verzura che il sole stimola chiede del tempo per germogliare e la sorte non concede sempre a chi ha seminato di partecipare al raccolto”.

 

Con gioia aveva esercitato la professione di insegnante di teologia e di predicatore. Non poteva però concepire la nuova attività come una semplice predicazione della religione, bensì soltanto come una genuina attuazione. La preparazione medica avrebbe favorito il perseguimento di questo scopo nella maniera migliore e più completa, dovunque lo avesse portato il cammino.Ritorno inizio documento

Nell’Africa equatoriale, secondo i missionari, la presenza di un medico era la più urgente delle necessità. “La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro – sosteneva – mi sembrava scritta per noi. Siamo noi il ricco Epulone perché il progresso della medicina ci ha dato in mano molti mezzi contro le malattie e il dolore. E noi consideriamo gli inestimabili vantaggi di questa ricchezza come un qualche cosa di naturale. Ma laggiù, nelle colonie, c’è il povero Lazzaro, i popoli di colore, soggetti al dolore come noi, anzi più di noi perché non hanno mezzi per combatterlo”.

 

La sua vita ha avuto un’unica tangente: pensatore conscio della sua responsabilità dinanzi agli uomini; artista che cerca con la sua arte gli europei all’interiorità, al raccoglimento; medico nel lavoro per la salvezza dei negri. A questo proposito, tra l’altro, sosteneva: “Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo”.  La sua decisione fu quindi irrevocabile. Era un venerdì il 13 ottobre del 1905 quando imbucò una serie di lettere, in cui comunicava ai suoi genitori e ad alcuni amici più intimi che, con l’inizio del semestre invernale, si sarebbe iscritto a Medicina, con il proposito di andare più tardi come medico nell’Africa equatoriale.

 

Lo studio della Medicina (1905-1912)

 

Nei primi mesi di università Schweitzer scrive il saggio sulla costruzione degli organi; e nella primavera del 1906, dimettendosi da direttore del seminario teologico, lascia il collegio di St. Thomas dove aveva abitato fin dal periodo studentesco. Si dedica profondamente allo studio delle scienze naturali, che gli avrebbe procurato gran completamento della sua cultura, acquisendo una viva esperienza intellettuale. All’inizio del corso di Medicina aveva incontrato difficoltà finanziarie, ma in seguito la situazione migliorò grazie al successo dell’edizione tedesca del suo libro su Bach e agli onorari per i concerti. Nell’ottobre 1911 sostiene l’esame di Stato e, il 17 dicembre conclude la sua presenza presso il reparto di chirurgia di Madelung, ancora incredulo di avere alle spalle il grande sacrificio per lo studio della medicina.

 

Nei suoi studi sulla vita di Gesù aveva messo in evidenza che egli era cresciuto nel mondo ideale tardo giudaico, per noi fantasioso, dell’attesa della fine del mondo e del successivo avvento di un regno messianico soprannaturale. Perciò gli era stato rimproverato di aver fatto di lui un “esaltato”, se non addirittura una personalità dominata da idee deliranti. Quindi, attraverso l’approfondimento della tesi, doveva stabilire con criteri medici se la sua consapevolezza messianica era in qualche modo legata a una psicopatia.

 

Prima della partenza per l’Africa

 

Nonostante l’impegno per la tesi, si prodiga per i preparativi del viaggio in Africa e, nella primavera del 1912, abbandonaRitorno inizio documento l’insegnamento all’università e l’incarico alla comunità di St. Nicolai. Tale abbandono costituisce per Albert Schweitzer una grande rinuncia. Prima della partenza vive per un breve periodo nella paterna casa di Gunsbach insieme con la moglie Helénè Breslau (figlia  di uno storico di Strasburgo), che aveva sposato il 18 giugno 1912. Prima del matrimonio è stata per lui una valida collaboratrice nella stesura di manoscritti e nella correzione delle bozze; insomma, in tutti quei lavori letterari che dovevano essere completati prima della partenza per l’Africa.

Albert Schweitzer la moglie Helénè Bresslau

 

Trascorre la primavera del 1912 a Parigi per specializzarsi in Medicina tropicale ed effettuare i primi acquisti per la nuova attività che lo attendeva. Sino ad allora aveva svolto un lavoro esclusivamente intellettuale; ma ora, si trattava di compilare orinazioni sulla base di cataloghi, fare acquisti per giornate intere, scegliere le merci, esaminare forniture e conti, preparare casse ed imballaggi, redigere minuziosi elenchi per la dogana ed altro ancora. Ottenuta dal ministero delle Colonie l’autorizzazione all’esercizio dell’attività medica nel Gabon, dato che era in possesso soltanto del diploma di laurea in tedesco, comincia i preparativi mettendo insieme gli strumenti, le medicine ed ogni altro materiale necessario per un’attività ospedaliera. Per procurarsi i mezzi necessari per affrontare l’impresa ricorre alla bontà dei suoi conoscenti, la cui difficoltà era data dal fatto che tale opera umanitaria doveva ancora iniziare…

 

Tuttavia incontra molta disponibilità e dimostrazioni di affetto. In particolare si commuove per la generosità delle offerte dei professori tedeschi dell’università di Strasburgo per un’opera da fondare in territorio coloniale francese. Un notevole contributo materiale lo riceve grazie ad un concerto e ad una conferenza che tiene a Le Havre. Un aiuto prezioso per il disbrigo delle questioni finanziarie e commerciali gli viene da Annie Ficher (vedova di un professore di chirurgia dell’università di Strasburgo, il cui loro figlio diventerà più tardi medico in un paese tropicale), che mantenne tale impegno in Europa durante la permanenza di Schweitzer in Africa. Ora era pronto, e alla Società missionaria di Parigi comunica che come medico intendeva servire gli abitanti di Lambarènè, un villaggio del Gabon lungo il fiume Ogooué.

 

Nonostante il direttore della Società di Parigi, Jean Bianquis, si adoperasse per aiutare il dottor Schweitzer, gli ortodossi oppongono resistenza, e decidono di convocarlo davanti ad un comitato per sottoporlo ad un esame dottrinale. Ma Albert Schweitzer non si presta al “gioco” obiettando che, quando aveva nominato i suoi discepoli, Gesù aveva preteso da loro soltanto la volontà diRitorno inizio documento seguirlo. Si rifiutò di comparire davanti al comitato e lasciarsi sottoporre a domande teologiche. Per contro, si offre di dialogare con i membri del comitato per dimostrare che non avrebbe rappresentato un pericolo per le anime dei negri… Accettarono la sua proposta anche se, alcuni dei membri, pensavano che una volta laggiù Albert Schweitzer si lasciasse tentare di confondere i missionari con la sua cultura e di mettersi a fare il predicatore. Benché fosse disposto a mettersi, all’occorrenza, a disposizione di un’organizzazione, non abbandonò la speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo libero. Ha sempre considerato l’appagamento di questo desiderio come una grande grazia, continuamente rinnovata.

 

Nel febbraio 1913 erano pronte le 70 casse e spedite in anticipo a Bordeaux. La moglie di Albert (che nel frattempo aveva completato il  corso di infermiera) era contraria a che suo marito si portasse 2000 marchi in oro anziché in biglietti. Lui ribadì che bisognava fare i conti con la possibilità di una guerra: in tal caso l’oro avrebbe conservato in qualsiasi parte del mondo il suo valore, e i fatti gli diedero ragione. Albert aveva ricavato fondi presso amici e parenti, attraverso donazioni spontanee, organizzazioni di beneficenza e tenendo concerti. Quest’ultimo ruolo sarà il modo più proficuo da lui utilizzato per la raccolta di sovvenzioni per l’autofinanziamento dell’ospedale.

 

Il primo periodo africano dal 1913 al 1917

 

Il Venerdì santo (26 marzo 1913) i coniugi Schweitzer lasciano Gunsbach si imbarcano a Bordeaux. Una volta giunti a Libreville (capitale del Gabon e base navale della baia, deve il suo nome ad alcuni schiavi che nel 1849 vi si stabilirono dopo la cattura di un battello di negrieri), li attendevano altre otto ore di navigazione per giungere a Port Gentil. Il 15 aprile i coniugi Schweitzer lasciarono la nave Europe per imbarcarsi sul battello fluviale “Alembé”, percorrendo l’Ogooué (un fiume lento, limaccioso, largo tre volte il PO, che si apre la strada nell’intrico verde della foresta per centinaia e centinaia di miglia), quindi a Lambarènè alla Missione N’Gomo, accolti con molta cordialità dai missionari Christol e Ellenberger.

 

I coniugi Schweitzer all’arrivo in Gabon

 

Nota sulla Missione di Lambarènè

 

La Missione di Lambarènè era stata fondata nel 1876 dal dottor Nassau, un missionario e medico americano; del resto americani erano stati i missionari che, giunti nel paese nel 1874, avevano iniziato l’attività evangelica nella regione dell’Ogoouè. Quando poi il Gabon era diventato possedimento della Francia, la Società di Parigi aveva sostituito, a partire dal 1892, gli americani, dato che questi non erano in grado di impartire l’istruzione scolastica in francese, com’era prescritto dal governo.

 

Stabilirono la loro dimora sulle rive del fiume, una capanna sulla collina Andende (a 250 Km. dalla capitaleRitorno inizio documento Libreville). Subito si mette all’opera (aiutato dalla moglie, infermiera) e, non avendo dove operare, come ambulatorio si accontenta di un vecchio pollaio. Nell’autunno ottiene vicino al fiume una baracca di lamiera ondulata (8 m. x 4 m.), coperta da un tetto di foglie, e conteneva un piccolo angolo per eseguire gli interventi, ed un piccolo spazio adibito a farmacia. Intorno sorsero altre piccole capanne di bambù per il ricovero degli ammalati.


 

L’ospedale di Lambaréné non è da intendersi nient’altro che il concetto del rispetto per la vita, realizzato e concretizzato ben più che un comune nosocomio ai margini della foresta vergine, ne è un asilo sicuro per chi è visitato dalla sofferenza, un luogo di rifugio per uomini e animali. È altresì un simbolo di fratellanza internazionale perché da tutte le parti del mondo arrivano medicine, mezzi di sussistenza e messaggi di simpatia e di approvazione. Sin dall’inizio il tam-tam aveva già fatto sentire la sua voce e in poco tempo  si trova assediato da molti ammalati, che provenivano in piroga da distanze di 200-300 Km., scendendo o risalendo il fiume Ogouè e i suoi affluenti. I malati non arrivavano soli, ma accompagnati dall’intera famiglia e dagli animali domestici. Bisognava ospitare tutti, fra posto a tutti, sfamare tutti, uomini e bestie, malati e sani. Altrimenti rifiutavano di restare, risalivano sulla piroga e ripartivano con tutto il seguito per i villaggi da cui erano venuti.


Tra le prime difficoltà Schweitzer è nell’impossibilità di trovare interpreti, ma in seguito il problema fu risolto con la disponibilità di Joseph Azoawani (un ex cuoco, che gli rimase fedele sino alla fine dei suoi giorni); gli diede preziosi consigli per i rapporti con gli indigeni. Da lui impara che presso i primitivi è imprudente cercare di dare speranza all’ammalato e ai suoi familiari quando in verità non ce n’è più. Se sopraggiunge la morte, senza che sia stata debitamente predetta, la gente conclude che il medico non sapeva che la malattia avrebbe avuto questo esito e quindi non l’aveva individuata. Agli ammalati indigeni bisogna dire la verità senza riguardo: essi vogliono conoscerla e sanno sopportarla. La morte è per loro qualcosa di naturale, non la temono, l’attendono con calma.

 

La moglie Helénè Breslau, assisteva i malati più gravi, curava la distribuzione della biancheria, sovrintendeva alla farmacia, teneva sempre pronti gli strumenti per gli interventi, si occupava dei preparativi per l’anestesia; mentre Joseph fungeva da assistente. Il lavoro non mancava, ma non era tanto la sua intensità che preoccupava Schweitzer, bensì la responsabilità e le preoccupazioni. Si preoccupava di risparmiare e, nei limiti del possibile, esigeva dai pazienti negri che manifestassero concretamente la loro gratitudine per l’assistenza ottenuta. Ottiene così contributi in natura che ovviamente distribuiva fra i più poveri, e col denaro provvedeva all’acquisto del riso quando non c’erano abbastanza banane; anche se i più selvaggi avevano una diversa concezione del dono: in procinto di lasciare guariti l’ospedale, ne pretendevano uno da lui perché dicevano, era ormai diventato loro amico…

 

Tra i numerosi compiti, il dottor Schweitzer si proponeva di predicare, poter spiegare le parole di Gesù e di Paolo a gente per cui esse erano totalmente nuove. Nel tempo libero del suo primo anno in Africa lo dedica alla preparazione degli ultimi tre volumi dell’edizione americana delle opere di Bach per organo. Per esercitarsi aveva a disposizione un piano con pedaliera d’organo, fabbricato per le zone tropicali, avuto in dono dagli amici della Società bachiana di Parigi. Prima dello scoppio della guerra Schweitzer aveva ricevuto una grossa spedizione dell’occorrente per l’ospedale. Ma la salute di sua moglie è stata, a causa del clima, per un certo periodo cagionevole, ed avevano così trascorso al mare, presso il Port Gentil alla foce dell’Ogoouè, la stagione delle piogge tra il 1916 e il 1917.

 

Prigionieri a Garaison e a St. Rémy

 

Nel settembre 1917, appena ripreso il suo lavoro a Lambarènè, giunge la notizia di trasferirsi in un campo di concentramento in Europa. Con la moglie viene condotto sul vaporetto fluviale; giungono a Bordeaux e trattenuti in una sorta di caserma (per prigionieri in tempo di guerra). Qui Schweitzer contrae la dissenteria, che cura da sé, anche se in seguito tribolò ancora per parecchio tempo. Successivamente vengono trasferiti nel grande campo di concentramento di Garaison (un ex convento) nei Pirenei.

Fra i prigionieri era l’unico medico e, sia pur con qualche reticenza, gli è consentito esercitare l’attività di medico nel campo,Ritorno inizio documento essendo d’aiuto soprattutto a molti marinai affetti da malattie tropicali. Nella sua qualità di medico poté farsi un’idea della miseria che, in molteplici aspetti, regnava nel campo. Nell’internato quelli che soffrivano di più erano affetti da disturbi psichici.

 

Di nuovo in Alsazia

 

Verso la metà di luglio 1918, grazie ad uno scambio di prigionieri, i coniugi Schweitzer possono far ritorno in patria, attraverso la Svizzera. Il 15 luglio arrivano a Zurigo, e sembrava loro inconcepibile trovarsi in un paese che non conosceva la guerra. A stento Schweitzer riesce a raggiungere Gunsbach per salutare suo padre. Nel frattempo la sua salute peggiora a causa dei postumi della dissenteria contratta a Bordeaux, e necessita quindi di un intervento chirurgico. Viene operato il primo settembre a Strasburgo dal prof. Stoltz. Nell’estate del 1919 si reca in Svezia, e qui è sottoposto ad un secondo intervento chirurgico.

 

Il sindaco di questa città offre a Schweitzer il posto di assistente all’ospedale civile, che accetta anche perché non aveva di che vivere. Rimane in Europa ancora due anni dopo l’armistizio, che segna il passaggio dell’Alsazia dall’amministrazione tedesca a quella francese. In questo lungo periodo si dedica agli scritti su Bach e alla filosofia della civiltà, come pure alle grandi religioni e della loro visione del mondo. Nella Pasqua del 1920, su invito dell’arcivescovo Nathan Soderblom, tiene una serie di lezioni all’università di Uppsala per conto della Fondazione Olaus Petri. In questo stesso anno gli fu conferita la laurea honoris causa dalla Facoltà di Teologia di Zurigo.

 

Per la seconda volta in Africa (1924-1927)

 

Il 14 febbraio 1924 Albert Schweitzer lascia Strasburgo solo (la moglie resta in Europa a causa del precario stato di salute). Albert le fu sempre molto grato per il sacrificio compiuto approvando in tali circostanze la sua decisione di riprendere l’attività a Lambarènè. Questa volta vi ritorna accompagnato da Noel Gillespie, un giovane studente di chimica di Oxford. Giungono a Lambarènè il 9 aprile. Dell’ospedale non rimaneva altro che la piccola baracca in lamiera e lo scheletro in legno duro di una delle grandi capanne di bambù. Durante i sette anni della sua assenza tutti gli altri edifici erano marciti e caduti in rovina. La ricostruzione dell’ospedale richiese un anno e mezzo (altra biografia riporta parecchi mesi…) di lavoro per portarlo a un certo grado di funzionalità. Al mattino faceva il medico e al pomeriggio il capomastro. Purtroppo non riusciva a trovare operai perché il commercio del legname, rifiorito dopo la guerra, aveva assorbito tutta la manodopera disponibile. Ha dovuto così ricorrere ad alcuni “volontari”, accompagnatori di ammalati o convalescenti, che lavoravano senza entusiasmo. Ritorno inizio documento

 

Generalmente nei villaggi della foresta vergine, la boscaglia invadeva anche le capanne. Era un duro lavoro abbattere gli alberi ed estirpare i cespugli e le erbe… Gli indigeni erano sempre maldisposti a questa fatica improduttiva… Il dottor Albert Schweitzer spiega: ”Oltre ai lati negativi gli indigeni possedevano qualità molto rare. Noi siamo portati troppo spesso a giudicarli per i fastidi e le delusioni che ci procurano quando sono al nostro servizio… Non intendo giustificare la loro negligenza o negare la loro insofferenza. Mi sento in dovere di aggiungere, a loro giustificazione, che la condizione di salariati non è abituale a questa gente vissuta sempre in assoluta libertà. Per gli indigeni, lavorare non è un mestiere. Il lavoro è un episodio passeggero nella loro vita di uomini liberi. Esso rappresenta un obbligo al quale hanno accettato di sottomettersi solo per guadagnare. Quindi ogni mezzo è buono per eluderlo ”.

 

Poiché gli ammalati aumentavano, fra il 1924 e il 1925 trasferisce la sua abitazione su un’altra collina chiamata Adolinanongo (in dialetto galoa vuol dire “colui che dall’alto domina la tribù”), e fa venire dall’Europa due medici e due infermiere. Come se non bastasse sopraggiungono una grave carestia e una grave epidemia di dissenteria che, per affrontarle, occorsero mesi di duro lavoro. Si rende quindi necessario spostare l’ospedale in una zona più ampia. Per la terza volta ricostruisce l’ospedale, a tre Km. di distanza, e nel gennaio 1927 trasferisce anche gli ammalati, separando i contagiosi e gli alienati dagli altri. Si contavano ora 200 presenze oltre agli accompagnatori. Per la prima volta i suoi malati erano ricoverati in modo degno di un uomo! Risultati che ha potuto conseguire grazie ai proventi delle sue conferenze, concerti e pubblicazioni. Ora, che erano giunti dall’Europa due medici e due infermieri, poteva pensare di tornare a casa a trovare la moglie e la figlia. Il 21 luglio (altra biografia riporta il 2 luglio) dello stesso anno lascia Lambarènè.

 

Nonostante l’età Schweitzer non stava mai fermo, e la sua giornata era impegnata sino a notte. Alle 7.30 entrava nella sala da pranzo, per la prima colazione. A tavola si parlava poco… Alle 9.00 era già al tavolo di lavoro per rispondere alla corrispondenza. Lo studio è anche camera da letto: 3m. x 3m. Dopo lo scritto si dedicava all’ospedale: non gli sfuggiva nulla; incoraggiava, rimproverava,Ritorno inizio documento risolveva i mille problemi che l’ospedale creava. Nessuno si lamentava per il caldo. Alle 19.30 si cenava, tutto il personale si radunava e aspettava Schweitzer. Dopo la cena Schweitzer suonava al pianoforte; poi si dedicava alla lettura, venivano distribuiti i libri degli inni luterani. Prima delle 21.00 la giornata aveva termine. Quando era solo, restava alzato fino alla mezzanotte a scrivere, a studiare.

 

L’inosservanza degli indigeni

 

Gli operati sono la principale causa delle preoccupazioni del dottor Schweitzer e collaboratori. La loro inosservanza alle prescrizioni era la norma… Spesso gli operati, cedendo alla tentazione di passare le dita sotto le bende per toccare le ferite, correvano il rischio di infettarsi. Non era davvero facile, secondo Schweitzer, essere medico dei primitivi! Ogni sabato pomeriggio era dedicato alla pulizia delle baracche; erano reclutate tutte le donne che accompagnavano in ospedale i loro congiunti. Gli indigeni non riescono a capire perché si deve curare tanto la pulizia delle zone che circondano l’ospedale: per loro è del tutto indifferente che nel corso degli anni si ammassino intorno ai villaggi cumuli di immondizie. È difficile convincerli che è proprio questa montagna di sudiciume la causa prima delle febbri che colpiscono i loro familiari e i loro figli. Proprio perché la maggior parte dei malati arrivavano all’ospedale, provenienti da villaggi lontani, impiegando intere settimane, non di rado arrivava gente che aveva affrontato un lungo e faticoso viaggio, e spesso l’intervento chirurgico si rivelava impossibile e senza speranza. Tuttavia, come questa gente non morisse di fame nell’attesa, è stato, per così dire, sempre un mistero…

Ma sulla tendenza a giudicare o ad analizzare il comportamento di queste popolazioni, o comunque del prossimo, Schweitzer, sosteneva: “Non si ha il diritto di indagare nell’intimo degli altri. Il voler analizzare i sentimenti del prossimo è indelicato. Non c’è solo un pudore del corpo, esiste anche quello dell’animo che bisogna rispettare. Anche l’animo ha i suoi veli, dei quali non ci si deve liberare”. Così Schweitzer descriveva gli indigeni. Il nero non è un essere stupido, come può credere chi presta fede ai racconti dei vari esploratori che basano i loro giudizi sulle esperienze fatte con portatori e rematori. Per conoscere veramente l’indigeno è indispensabile che i rapporti non siano da padrone a dipendente, ma da uomo a uomo”.

 

“Dobbiamo cercare - proseguiva - di cogliere la sua autentica natura attraverso l’atteggiamento del tutto esteriore e poco simpatico che egli ostenta in nostra presenza. Chi ci è riuscito, sa quanta generosità si racchiude nel suo animo. Ciò che mi ha sempre sorpreso nei nostri indigeni è la mitezza d’animo. Essi ignorano quella solidarietà che spinge un uomo a portare aiuto a un proprio simile, come a noi è stato insegnato dai comandamenti divini. Paragonato agli europei, l’indigeno è un essere asociale: è assurdo accusarlo di inosservanza dei doveri. Egli è ancora troppo preoccupato di sé per interessarsi agli altri. Quando invece è costretto a sopportare un’ingiustizia, spesso dà prova di una pacatezza e di una calma che non ha mancato di sorprendermi. Fra l’altro ritengo che gli indigeni siano meno suscettibili di noi ai sentimenti di collera e vendetta”.

 

Ancora due anni in Europa

 

Complessivamente Schweitzer fece 19 viaggi a Lambarènè. Ovunque andasse gli impegni si susseguivano. Divenne famoso in tutto il mondo: la rivista “Time” lo considerò “il più grande uomo del mondo”. Trascorre l’autunno e l’inverno del 1927 in Svezia e in Danimarca; la primavera e l’estate del 1928 è in Olanda, Svizzera, Inghilterra, Germania per una serie di concerti e per ritirare il premio Goethe per la sua opera missionaria. La sua resistenza fisica, il suo carattere fermo, la sua perseveranza, la sua fede, la sua musica d’organo vissuta come un atto di fede, sono stati i motivi profondi del suo successo.

 

Nel dicembre 1929 riparte per l’Africa accompagnato ancora una volta dalla moglie. Un soggiorno che durerà sino al 1932, perché la moglie, a causa del clima, tornò in Europa verso la Pasqua del 1930. Nel gennaio 1932 ritorna in patria e il 22 marzo è a Francoforte per tenere il discorso ufficiale per il primo centenario della morte di Goethe. In questa occasione pronunciò un violento discorso di sfida al nazismo. Da allora la Germania rimase esclusa dagli itinerari dei suoi viaggi. Ritorna in Africa nell’aprile 1933, ma solo per pochi mesi. Infatti, nel gennaio successivo è in Europa per far fronte ad impegni di conferenze che tiene a Londra, Oxford e ad Edimburgo.

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Il 5 febbraio 1935 parte per la quinta volta per Lambarènè per ritornare ad Edimburgo nell’agosto successivo. Nell’agosto 1939 torna a Lambarènè per proteggere la sua opera, in vista del secondo conflitto mondiale, prima del quale la media dei pazienti curati e assistiti era di 3.500 all’anno. Nel 1940 vi furono anche dei combattimenti nei pressi dell’ospedale, e per quasi tutto il periodo della guerra fu quasi completamente isolato dal resto del mondo. Le difficoltà aumentarono anche perché le donne europee, i cui mariti erano stati richiamati sotto le armi, non osavano abitare da sole in località isolate della giungla e chiedevano asilo a Schweitzer.

 

Altri bianchi, impossibilitati ad abbandonare l’Africa, si erano ammalati e bisognava accoglierli in ospedale; pure alcuni medici e infermieri si erano ammalati ed era necessario allontanarli da Lambarènè perché riacquistassero la salute in un clima più salubre. Prima della fine della guerra Albert Schweitzer ebbe il conforto di riabbracciare la moglie che era riuscita a raggiungerlo ancora una volta in Africa. Il 7 maggio 1945 giunge la notizia che in Europa erano cessate le ostilità, e con la fine della guerra riprende i contatti con l’Europa e soprattutto con l’America, che contribuì ad inviare materiale, medici ed infermieri.

 

Nell’ottobre del 1948 Schweitzer torna in Europa (in questo periodo scrisse “L’ospedale nella foresta vergine”) e prima della fine del 1949 (dopo essere stato per la prima volta negli Usa) è di nuovo a Lambarènè. Quando nel 1951 torna in Europa la sua fama è all’apogeo: i critici di tutta Europa concordavano nel giudicare eccezionale il periodo passato nella foresta. Ad un famoso corrispondente svizzero scrisse: “Soffro di essere famoso e cerco di evitare tutto ciò che attira su di me l’attenzione”. Questa sua timidezza fu notata ed apprezzata da tutti coloro che ebbero contatti con Schweitzer. In questo stesso anno era stato eletto membro dell’Accademia delle scienze morali e politiche di Parigi. Nel 1952 il dottor Schweitzer fu onorato con il premio Nobel per la pace, ma poté recarsi ad Oslo per la solenne cerimonia solo l’anno dopo, in occasione della quale tenne una conferenza sul problema della pace nel mondo. Fu un vibrante appello in favore della pace e della bontà. Con il denaro del Premio (33.480 dollari) poté portare a termine il suo villaggio dei lebbrosi che venne inaugurato nel 1954 con il nome di “Villaggio della luce”.

 

Ma come esercitava l’attività medica?

 

Già nella sua autobiografia “Ma vie et ma pensée” Schweitzer annotava che all’età di 21 anni aveva deciso di vivere per la scienza e per l’arte sino ai trent’anni e di consacrarsi in seguito ad un servizio puramente umano. Voleva diventare medico per poter lavorare senza essere costretto a parlare e, in Africa, la presenza di un medico corrispondeva al bisogno più urgente. Mantenne e concretizzò questo suo proposito. Nell’ottobre 1905 si presentò in qualità di studente al preside della Facoltà di Medicina di Strasburgo. Superata la trentina e conscio dell’impegno che avrebbe dovuto affrontare negli anni successivi, annotava nelle sue memorie: “… così ora inizio una lotta contro la fatica ed il tempo che durerà per parecchi anni”.

 

Partendo per l’Africa si preparò a compiere un triplice sacrificio: rinunciare alla sua attività artistica, abbandonare l’insegnamento universitario, perdere la propria indipendenza materiale e ridursi, per il resto della sua vita, a dipendere dall’aiuto dei suoi amici. Nel 1912 ottenne l’autorizzazione ad esercitare la pratica medica, e trascorse quasi un anno a Parigi per seguire dei corsi di medicina tropicale; nel frattempo si dedicò alla raccolta di materiale tecnico-sanitario che gli sarebbe servito per la sua attività a Lambaréné, dove vi giunse nella primavera del 1913 con  la moglie Hélène Breslau che gli sarebbe stata accanto coadiuvandolo come infermiera e, inizialmente, anche come anestesista. Inizialmente alloggiarono in una piccola baracca di lamiera ondulata e per ambulatorio ebbero a disposizione un vecchio pollaio adiacente all’abitazione. Solo nel tardo autunno poterono fruire di una baracca più grande con un tetto di foglie il cui interno conteneva un piccolo ambulatorio, una sala operatoria, una farmacia e un angolo per la sterilizzazione.Ritorno inizio documento

 

In seguito sorsero altre capanne per il ricovero degli indigeni che, scendendo o risalendo il grande fiume Ogoué, arrivavano dalle zone più lontane e inesplorate del nord (accompagnati dai famigliari con al seguito i loro animali e le loro povere cose) coperti da piaghe ulcerose, paralizzati dal tripanosoma, dissanguati dalla malaria, accecati dal tracoma, deturpati dalla lebbra. Ma spesso erano affetti da più patologie. Era difficile trattare questi malati: alcuni rifiutavano l’intervento perché ancora “soggiogati” dallo stregone del villaggio, altri con ferite aperte facevano il bagno nelle acque infette del fiume; le gravide rifiutavano di partorire all’ospedale per cui si rendeva necessario ricorrere a stratagemmi per convincerle a dare alla luce i loro bambini in modo più sanitario… “Dopo un viaggio di 400-500 chilometri – osservava Schweitzerarrivavano in condizioni pietose (spesso disperate), affamati, denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e rimetterli in sesto”.

 

In mancanza di denaro ai pazienti veniva richiesto un contributo in natura e lavoro. Senza scendere ulteriormente in dettagli, si può immaginare quali erano le difficoltà di organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat e in un clima ostili, e per i primi anni senza collaboratori tecnici competenti. Dopo alcuni mesi, e superati i primi ostacoli, il piccolo ospedale poteva ospitare quotidianamente una quarantina di degenti. Sino al 1917 e dal 1924 in poi il medico alsaziano si dedicò prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con l’arrivo del dottor Marc Lauterburg. “Ma il dottor Schweitzer, nel campo della scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo, fondatore e segretario nazionale dell’Associazione Italiana Albert Schweitzer, con sede a Trieste (telef. 040/27.46.34) – non fu un genio e non ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità riportate più volte dai mass media, male informati ed alla ricerca di notizie sensazionali o quantomeno infondate. Quello che invece ci stupisce di Schweitzer, e ciò che vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso affermava, da una buona dose di fortuna”.

 

Ma anche se il dottor Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico, sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che introdusse in Africa equatoriale dagli Stati Uniti, il Promine ed il Diasone, due prodotti per il trattamento della lebbra; e anche il primo a sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevano già invaso le cellule del sistema nervoso centrale) con il Germanyl, il Moranyl ed il Tryparsarmide, molecole che, grazie alla scoperta della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da Schweitzer a Lambaréné presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente. Ritorno inizio documento
Purtroppo sull’impiego del Trypasarmide gravava il dubbio che provocasse lesioni al nervo ottico con conseguente cecità permanente. Per il trattamento di altre patologie, come la tubercolosi polmonare o ossea, le avitaminosi, l’ulcera fagedemica, le affezioni intestinali, etc., venivano usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico dall’industria farmaceutica d’oltre oceano. Gli interventi principali riguardavano ernie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei vasi linfatici da parte di microfilarie, n.d.a.), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite causate soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati. Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti ben presto si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe potuti guarire.

 

Durante un rientro in Europa, il dottor Schweitzer frequentò la Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue conoscenze stomatologiche. Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere concerti e conferenze, si fermò ad Amburgo per aggiornarsi sui progressi della terapia del sonno, e frequentare un corso di chirurgia che gli consentì di affrontare e risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche. Rientrando a Lambaréné dovette più volte ricostruire letteralmente il suo ospedale, “trascurato” dagli abitanti ma soprattutto perché durante la sua assenza era marcito, soffocato dalla vegetazione e divorato dalle termiti; in un’altra occasione a causa di una grave epidemia di dissenteria e per il conseguente aumento di ricovero dei malati le baracche dell’ospedale erano del tutto insufficienti, tanto da imporre una grande opera di ampliamento. Per riportarlo ad un certo grado di funzionalità Schweitzer dovette dedicarvisi personalmente per molti mesi…

 

Fu così che decise di trasferirsi su una collina (Adolinanongo), tre chilometri a monte sulla riva destra dell’Ogoué dove l’ospedale avrebbe potuto estendersi. La spesa per la sostituzione delle baracche di bambù dai tetti di foglie con baracche in lamiera ondulata non era indifferente; inoltre, per mettere l’ospedale al sicuro dalle inondazioni del fiume e dalla valanga d’acqua che scendeva dai pendii della collina durante la stagione delle piogge, scelse una soluzione fra moderna e preistorica creando un villaggio di baracche su palafitte. L’attività ospedaliera venne affidata ai colleghi Nessmann, Lauterburg e Trensz mentre Schweitzer per un anno si trasformò in sorvegliante degli operai: dovette assumersi personalmente tale incombenza poiché la mutevole schiera di “volontari”, reclutata fra gli accompagnatori degli ammalati, rispettava soltanto l’autorità del vecchio dottore.

 

Durante la seconda guerra mondiale le installazioni ospedaliere di Lambaréné furono messe a dura prova: tutta l’Africa equatoriale francese, con la sola eccezione del Gabon, si unì alla Francia libera, in guerra contro Hitler. Lambarénè si trovò al centro di una lotta tra francesi liberi e collaborazionisti hitleriani, tant’è che sino al 1942 rimase isolata dal resto del mondo.Ritorno inizio documento

All’ospedale le difficoltà aumentavano; i bianchi, ad esempio, impossibilitati ad abbandonare l’Africa, si erano ammalati e bisognava accoglierli in ospedale; ma anche alcuni medici ed infermieri si erano ammalati ed è stato necessario allontanarli da Lambaréné perché riacquistassero la salute in un clima più salubre. In questa circostanza Schweitzer scrisse: “Bisogna fare appello alle nostre ultime energie per soddisfare le esigenze dell’ospedale. La nostra preoccupazione quotidiana consiste nella fatica poiché per molto tempo non vi saranno sostituzioni”.

 

Ma presso Lambaréné c’era pure un ospedale governativo, costruito in epoca recente, che però era quasi sempre deserto. I negri non volevano andarci perché era un ospedale troppo… all’europea, e preferivano l’ospedale di Schweitzer con tutte le sue capre, le sue galline, pieno di bambini e dove all’igiene non si badava troppo. L’igiene, del resto, non è qualcosa di assoluto, l’igiene necessaria agli africani è (soprattutto era, n.d.a.) diversa da quella necessaria agli europei.

 

Nessuno verrebbe da me – spiegava il medico filantropo – se li costringessi a vivere in corsie sterilizzate, sui lettini di ferro, tra lenzuola bianche. Non sanno che farsene delle lenzuola. Io li curo lasciandoli vivere come sono abituati nei villaggi assediati dalla foresta, piccoli nuclei che per secoli sono rimasti centri di cultura isolati con i propri costumi, dialetti e persino modi di cucinare diversi… Gli ammalati che giungono ad Adolinanongo, dopo settimane di piroga sull’Ogoué, sono uomini già in crisi e ricoverarli in un ospedale all’europea, in ambienti a loro estranei, vuol dire imporre loro un secondo ben più grave trauma, provocare una nuova crisi alla quale reagiscono con la fuga, preferendo morire nei loro villaggi. Sono le strutture che devono adeguarsi agli uomini e non gli uomini alle strutture”.

 

Anche per queste ragioni non sono mancate le critiche a lui e al suo ospedale, ma è bene rammentare che l’obiettività elementare è frutto delle cose nella loro situazione stessa e nel loro momento storico. Ed ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo tanto discusso villaggio sanitario, ove accolse gli ammalati e le loro famiglie, con al seguito i loro animali; e acconsentì ai vari gruppi etnici di vivere secondo i loro costumi adattandosi egli stesso alla cultura dei popoli e rispondendo alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era, sino all’eccesso, della libertà individuale degli africani. Tollerò le loro abitudini tribali, la poligamia, le loro interminabili discussioni… Risultati di un’improvvisazione che hanno come scopo combattere le sofferenze e guarire i suoi ammalati. “Tutto questo – affermava – è insito nello spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta più o meno in tutte le religioni delle varie civiltà”.

 

Il dottor Schweitzer  non fu mai un progressista ma era profondamente conscio che il progresso, di per sé, non rappresenta una garanzia per l’umanità. Rifiutò il gigantismo delle moderne strutture (sino a “stravolgere” le regole della medicina occidentale) in quanto le considerava follie di grandezza, tentazioni della modernità. Visse in povertà nel suo ospedale, in economia, ove il superfluo era bandito, e fu così che le illusioni e le ambizioni nate dall’indipendenza politica negli anni ’60, determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di avversione che indusse a giudicare la struttura superata, o peggio ancora, vergognosa.

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Considerazioni ampiamente condivise, sia pur a posteriori, dal dottor Sancin, che tra l’altro, da oltre trent’anni si dedica ad attività organizzative nell’ambito dell’assistenza sanitaria nei paesi in via di sviluppo dall’Africa all’estremo Oriente: “Dovremmo dedicare maggior attenzione alle generazioni future di medici e ricercatori che vorranno sacrificare o dedicare parte della loro esistenza per il bene di un’umanità più disagiata, più vulnerabile ed emarginata, fuori dai credi politici o religiosi. Solo così riusciremo a colmare, almeno in parte, le grandi differenze che separano ancora l’umanità”.

 

Gli ultimi anni

Nel 1959 il dottor Albert Schweitzer  fa ritorno per l’ultima volta a Lambarènè. L’ospedale ospitava ormai 600 persone e il numero degli ammalati tendeva ad aumentare. Molti medici di ogni parte del mondo profittarono per offrire gratuitamente la loro opera durante le vacanze a favore dell’ospedale. Questo anche perché nel frattempo si sono costruite strade, un aeroporto sull’altra riva del fiume. Ora si lavora molto: in una sola giornata si sono fatte 17 interventi chirurgici di ernia (c’erano ben due tavoli operatori). Sino all’agosto del 1965 le Grand Docteur  poté confidare ancora nella sua buona salute anche se, ormai, non aspettava altro che essere sepolto a Lambarènè accanto alla moglie Hélène (che era morta il 1 giugno 1957 a Zurigo, all’età di 78 anni. Fu cremata e le sue ceneri furono trasportate a Lambarènè e sepolte all’ombra di una palma vicino all’abitazione del marito). Il “grand docteur” si spegneva alle 23.30 (altra biografia riporta alle 23.25) del 4 settembre del 1965, mentre gli ammalati avevano preso il sonno ristoratore delle loro sofferenze, gli animali tacevano nella notte tropicale e il grande fiume Ogouè rispecchiava le luci della finestra di Schweitzer  ancora illuminata.

 

Il buffo ed “impenetrabile” dottore

 

Albert Schweitzer  era piuttosto alto (m. 1,80) e di corporatura robusta. Ciò che colpiva subito in  lui era il volto: i folti e arruffati capelli bianchi (che raramente si spazzolava), lo facevano somigliare ad Einstein. Per i famosi, espressivi, potenti baffi a cespuglio, qualcuno ha voluto vedere in lui una rassomiglianza con Nietzsche, altri con Joseph Wirth o Aristide Briand; mentre i francesi lo trovavano somigliante a Clemenceau. Tuttavia, i suoi occhi erano inconfondibili, dall’espressione profonda.

 

Per quanto riguarda il suo carattere (per la verità difficile da interpretare) alcuni lo hanno definito dal temperamento focoso, testardo, calcolatore, visionario, etc. In realtà era un uomo non privo di difetti: era autoritario, pedante, teutonico e soprattutto un cocciuto passatista. In cinquant’anni di vita africana non si era mai curato di imparare una sola parola dei loro dialetti; e per evitare ogni rapporto con le autorità locali, aveva rifiutato l’installazione di un telefono. Le classi dirigenti e intellettuali africane lo accusavano di non capire le “istanze” del mondo nuovo. Forse c’è qualcosa di vero in tutto ciò ma Schweitzer non aveva mai creduto nella capacità delle popolazioni indigene di autogovernarsi democraticamente.Ritorno inizio documento

 

Le critiche dei demagoghi neri e dei retori bianchi furono pesanti per colui che, ai selvaggi della foresta, aveva sacrificato un’intera esistenza. Un giornalista che ebbe modo di conoscerlo più da vicino disse: “Non bisogna crederlo un santo. È un uomo con tutti i difetti umani, ma come uomo è grandissimo”. Quando John Gunther visitò Schweitzer a Lambarènè nel 1954 scrisse: “Schweitzer è troppo al di sopra, troppo complesso per afferrarlo facilmente, è un uomo universale”, e quando gli chiese se si sentiva più francese o più tedesco, la sua risposta fu istantanea, senza ombra di dubbio: “Homo sum”. Ma c’è invece chi sostiene fosse molto semplice, naturale e modesto più di quanto venisse descritto da una certa stampa, soprattutto americana. Si intratteneva volentieri con tutti, rispondeva personalmente a chi gli scriveva, con calligrafia chiara, minuta, elegante. Si era soliti vederlo con i vecchi pantaloni cascanti, pieni di rammendi, con le tasche sempre gonfie di lettere.

 

Nel contempo era un uomo di un rigore estremo. Nel villaggio regnava una disciplina assoluta ed un rigore necessari per scoraggiare i romantici, gli avventurieri e tutti coloro che chiedevano di poter prestare la loro opera al suo fianco senza possedere le doti morali e psicologiche adatte. Albert Schweitzer non tollerava che si portassero i calzoni corti, che si girasse a testa nuda o che ci si lamentasse del caldo. Vestiva di bianco e portava il casco coloniale di sughero; non aveva mai abbandonato questa divisa che nessuno più adottava e che spesso veniva indicata come il simbolo di un colonialismo ormai scomparso.

Il dott. Schweitzer e la figlia Rhena negli ultimi anni in Gabon

 

Egli diceva che la mosca tse-tse, per succhiare il sangue, punge attraverso i tessuti più spessi…, quando sente il corpo sul quale si è posata fa il più piccolo movimento, vola via; è troppo furba per posarsi su un fondo chiaro dove sarebbe subito scoperta, e perciò la migliore difesa consisteva nel portare abiti bianchi (o comunque chiari). Quando era già famoso e doveva recarsi in Europa viaggiava in terza classe “solo perché non c’era la quarta ”, sosteneva. Quando si recava a cerimonie, a tenere concerti e conferenze e a ricevere premi, se la cavava con un vecchio vestito nero e una cravatta a farfalla che non abbandonava mai. Dotato di un fisico eccezionalmente forte, irrobustito anche dal lavoro manuale, Schweitzer poté resistere a tutte le malattie tropicali pur restando in continuo contatto con i lebbrosi che spesso gli fungevano da infermieri e interpreti. A Lambaréné viveva senza agi e conforti della vita moderna, non leggeva giornali, non possedeva radio, telefono od automobile. Non si è mai spostato in aereo. Sovente chiedeva consigli agli altri e mai si elevava a maestro, mai faceva pesareRitorno inizio documento l’autorità della sua cultura, della fama, dell’età. Con la sua autorità pretendeva molto dai collaboratori e si mostrava del tutto indifferente ai visitatori del suo villaggio (anche se questa versione diverge da altre biografie).

Frugalissimo, si nutriva quasi esclusivamente di frutta, lasciando parte di questi suoi pasti ad alcuni animali, la cui vita, come tutte le esistenze, egli rispettava profondamente. Non volle mai salire su un aereo, si rifiutò di “modernizzare” il suo ospedale, e di apprendere le varie lingue. Di qui le aspre critiche da parte di europei che lo tacciarono di colonialismo, ma lui replicava sorridendo a queste trovate; più che un colonialista egli era un grande “africano”. Ma un’originale definizione di sé l’ha data lo stesso Schweitzer, in occasione del suo 70° compleanno, parlando ai collaboratori di Lambaréné: “Io sono per un terzo professore, un terzo farmacista e un terzo contadino. Per di più posseggo qualche goccia di sangue dei selvaggi”. Godeva di una salute eccezionale grazie alla quale ha saputo far fronte a lavori manuali, viaggi, disbrigo della (a volte) fitta corrispondenza, resistendo al torrido clima equatoriale, sino a raggiungere un’età di … tutto rispetto. Sosteneva di perseguire tre principi: “Volontà, disprezzo dell’inazione (ozio), perseveranza. Ma anche una buona dose di fortuna”.

 

Ma come mai, ci potremmo chiedere, tra i missionari Schweitzer è stato (e forse lo è ancora) il più popolare, il più noto? È presto detto. La sua eccezionale personalità, la sua decisione di partire per l’Africa con un gesto che dai più è stato visto come una rottura con una brillantissima carriera, le sue opere, la sua filosofia del rispetto della vita,i suoi interventi in delicati momenti della vitaRitorno inizio documento internazionale, hanno commosso l’opinione pubblica mondiale. Inoltre, per la realizzazione della sua opera ha avuto a disposizione mezzi che gli altri missionari non si sognavano nemmeno. Schweitzer era conscio di tutto questo e sosteneva di non aver fatto nulla di straordinario; ed era sincero. Ma spiegava anche: “Nessuno verrebbe da me se io li costringessi a vivere in corsie sterilizzate, su lettini di ferro, tra lenzuola bianche. Non sanno che farsene, loro, delle lenzuola. Io li curo lasciandoli vivere come sono abituati a vivere nei loro villaggi, tra i loro familiari e le loro bestie, con le loro piccole e grandi infrazioni all’igiene. Io ho tutto nel mio ospedale: antibiotici e cortisonici, sulfamidici e vitamine, raggi X, elettrocardiografi ed altro ancora. Manca solo l’igiene. Ma c’è qualcosa che vale di più dell’igiene: la serenità, la distensione dell’animo, l’azione favorevole dell’ambiente”.

 

Il momento della notorietà

 

Coloro che credono che Albert Schweitzer volesse attirare in qualche modo l’attenzione da parte dei mass media o di chicchessia, va ricordato che la sua notorietà si diffuse a livello mondiale solo quando, nel 1945, alla Radio americana Albert Einstein (suo amico) disse che nella foresta equatoriale africana viveva “uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, se non il più grande”. Tale notorietà si intensificò dopo il riconoscimento del Premio Nobel ed ancor più nei primi anni ’60 quando, grazie all’Air France, a Lambarènè giunsero giornalisti attirati dalla tentazione di fare un “servizio” su Albert Schweitrzer e il suo ospedale. Di solito li riceveva l’alsaziana Emma Haussknech, con Schweitzer da trent’anni.

 

Nel 1953 giunse Jhon Gunter, famoso giornalista americano, che scrisse: “È un grand’uomo, uno dei più grandi d’ogni tempo, è una natura così alta e versatile che sfugge a una facile comprensione. Ha un poderoso naso aquilino, baffi spioventi, occhi che veramente fissano. È di una corporatura robusta e la sua tenuta consiste in un elmetto coloniale, una camicia bianca, aperta, calzoni sbrindellati, grosse scarpe nere. Forza, calma, autorità, sensibilità…; tutte queste caratteristiche si rispecchiano nella sua faccia fiera, dallo sguardo penetrante e dal pelo brizzolato. È un viso straordinario e Schweitzer è un magnifico uomo… Talvolta è dittatore, pedante, irascibile, ma esercita un fascino che ha del miracoloso ed è letteralmente adorato. E la sua risata, le volte che ride, è un segno evidente della sua dolcezza interiore… È un despota dal cuore d’oro”.

 

Schweitzer utilizzava l’umorismo come una forma di terapia equatoriale, un modo di ridurre la temperatura, l’umidità, le tensioni. In realtà, si serviva dell’umorismo in modo così artistico che si aveva la sensazione che lo considerasse quasi come uno strumento musicale. Durante i pasti, quando l’équipe si trovava tutta riunita, Schweitzer aveva sempre una storiella da raccontare. La risata era probabilmente la portata più importante: era stupefacente vedere come i membri dell’équipe sembravano ringiovaniti dall’argutezza del suo umorismo.

 

Ai giornalisti, stupiti della sua opera, Schweitzer diceva: “Questo che vedete, vi piaccia o meno, è il mio ospedale. Questa cheRitorno inizio documento vedete è la mia religione. Il mio ospedale è povero, ma ricco di qualcosa che voi non vedete perché ne siete già ricchi: la libertà, anche per un lebbroso, di vivere… Qui c’è il rispetto per la vita, per le consuetudini… Il telefono a che servirebbe? Se un malato muore o guarisce, io non saprei quasi mai dove e a chi telefonare...” Per capire che si è in un ospedale bisogna leggere sopra gli usci delle baracche le scritte: Malati nuovi”, “Consultazioni generali”, “Sala per le operazioni”.

Nel processo evolutivo di ogni essere umano c’è un tempo in cui la sua triplice natura (fisica, emozionale e mentale) raggiunge inevitabilmente un tale sviluppo da consentirne una sintesi perfetta. Ed è da questo momento che l’uomo diventa personalità, in quanto pensa, decide e dispone; assume il controllo della sua vita, tanto da costituire un fattore di rilevante influenza nel mondo.

 

Il celebre medico alsaziano, esempio fulgido di amore per il Creato (tra l’altro definito da alcuni un visionario, emissario sospetto da altri, in odore di santità da altri ancora) ha influito profondamente sullo spirito della nostra epoca con la sua vita esemplare e il suo pensiero profondo? Il suo mistico rispetto per l’amore, per la luce, e per la vita può ispirare ancora oggi il nostro cammino? Ed ancora. Può aiutare a lenire il dolore dell’umanità? A chi mi legge il diritto di accennare una risposta quale contributo al mantenimento della memoria di un testimone del tempo che, forse, ha pochi eguali; ma sicuramente, oggi, nella solidarietà con il sud del mondo, appare come un antesignano. Con pregi e difetti.


EB

Bibliografia

 

Il dottor Albert Schweitzer ”; Ed. Della Volpe, 1965

 

Albert Schweitzer – La mia vita e il mio pensiero ”; Ed. Comunità, 1965

 

75° anniversario della fondazione dell’ospedale di Albert Schweitzer ”, catalogo e mostra a cura di Adriano M. Sancin, 1988

 

Albert Schweitzer – Vita – Sermoni –Documenti- Pensieri ”, di Luigi Grisoni; Ed. Velar, 1993

 

Albert Schweitzer – Rispetto per la vita ” – Ed. Claudiana, 1994

 

Albert Schweitzer e il rispetto per la vita ”, di Luigi Grisoni; Ed. Velar, 1995

 

Albert Schweitzer – Le Medicin ”, conferenza di Adriano M. Sancin per la Celebrazione di Albert Schweitzer all’Accademia di Medicina di Torino; 11/10/1995

 


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